Il postmoderno oscilla tra la pletora dei segni e l’assenza completa di segni, il vuoto, simbolizzato dall’immagine “iconoclasta” del deserto: forma vuota, pura, priva di referente. L’oggetto, a sua volta, colto nel suo punto di arrivo tecnologico come merce, può essere convertito in evento enigmatico, sfida perenne al senso… La psicoanalisi ci ha insegnato come sia proprio dell’oggetto darsi quale solida presenza materica, e insieme inquietante assenza: l’oggetto rinvia a qualcosa di assente che non potrà mai essere afferrato e posseduto, e che però il soggetto non si stanca d’inseguire, sotto la spinta inesauribile del desiderio.
A questo percorso desiderante e asintotico ci conduce l’arte “oggettuale” di Agostino Bonalumi – tra i massimi artisti della seconda metà del XX secolo e del primo decennio del XXI – e di Giampiero Malgioglio – più giovane di una generazione – che annovera tra i suoi principali maestri proprio il grande pittore-scultore milanese. Osservando i cromatismi austeri e sontuosi delle loro opere, si avverte la consapevolezza che lo spazio è uno di quei fenomeni-concetti originari capaci di provocare nell’uomo, come afferma Goethe, un’ansia profonda, epistemologica ed esistenziale: dietro lo spazio, non vi è nulla a cui esso possa essere ricondotto; lo spazio è il pozzo senza fondo, è ciò che cattura totalmente. […]*
*Dal testo in catalogo di Silvia Pegoraro: “Bonalumi/Malgioglio: avvenire e divenire nello spazio oggettuale”.