l giudizio sull’opera pittorica e grafica di Mino Maccari è in genere legato, dato il suo peso di scrittore e polemista, a quello sulla sua personalità letteraria. In effetti gli spiriti della rivista “Il Selvaggio” (da lui diretta dal ’26 al ’43), confluiti nel movimento “Strapaese” – che fa del regionalismo e del provincialismo un’arma contro l’esterofilia e soprattutto contro l’accademismo – passano senz’altro nella sua ricerca artistica. In realtà la cultura di Maccari è profondamente europea: non è un caso che nella piccola Galleria del Selvaggio, aperta a Firenze nel 1927, oltre agli artisti che gravitano attorno al giornale (Soffici, Morandi, Rosai, Bartolini ecc.), Maccari faccia esporre le opere di molti artisti stranieri con cui dialoga e dialogherà in vario modo: da Goya a Ensor, da Grosz a Kokoschka.
La sua personalità “letteraria”, legata all’espressione e alla comunicazione verbale, è dunque profondamente immersa nella grande arte visiva occidentale, e questa considerazione allontana il rischio di essere portati a sottovalutare l’autorità e l’autonomia estetica di una pittura che vive assolutamente di luce propria, sia per l’originalità della concezione che per la sapienza tecnica, e che è fatta di ironia spumeggiante e di un profluvio di segni caricaturali, ma anche di poesia lirica e malinconica, di incantato abbandono, di visioni fantastiche e di atmosfere surreali, come dimostrano alcune opere esposte alla Galleria Marchetti di Roma a 25 anni dalla morte dell’artista (1989-2014): si veda la trasposizione ludica e fiabesca del tema “militarista” della parata in quel mirabolante gioco d’artificio cromatico che è appunto La parata (1959) o lo splendido Cinque figure, degli anni ’60, capolavoro plastico e coloristico, dalle tonalità ardenti e grevi.
Se, da una parte, s’interroga continuamente sulla funzione dell’intellettuale e intende l’arte anche come mezzo di civile intervento, di riflessione e di presa di coscienza, e dunque il suo impulso creativo tende a configurarsi come impulso a “fissare” una realtà di pensiero, dall’altra si percepisce in lui una gioia quasi fisica di vivere questo impulso come immersione nella danza metamorfica e dissolvente delle forme. Maccari è infatti ciò che Baudelaire avrebbe definito “un grand coloriste”: il suo colore va verso una febbrile intensità, una potente suggestione onirica; le figure emergono da una costellazione di pure note timbriche, che vibrano in armonia o in dissonanza, sino ai lavori degli anni più recenti, in cui la resa cromatica della luce in rapporto ai volumi delle figure è il prodotto di un’originale simbiosi tra “empatia” e “astrazione”.
Federico Zeri, che attribuisce a Maccari un’“eccezionale lucidità d’occhio e di mano”, e parla di straordinaria “acutezza mentale e percettiva di questo inesauribile esploratore visivo”, afferma però che “la sua pittura resta in sottordine rispetto all’incessante, perenne stimolo che agita e sorregge la sua produzione disegnativa”. Maccari applica in realtà alla pittura l’immediatezza della realtà schizzata nel disegno: essa manifesta, e letteralmente sprizza da ogni pennellata, la forza espressiva e comunicativa, la pregnanza, la chiarezza tipica del suo talento di disegnatore, eppure, nello stesso tempo, va molto aldilà, per inoltrarsi in territori più vasti e complessi.
Il pittore toscano sembra potersi inscrivere nel novero di quei “realisti visionari” che, come scrive Henri Focillon nella sua Estetica dei visionari, formano un ordine a parte, e le cui opere introducono nella nostra concezione dell’universo qualcosa d’improvviso e di vago, d’inquietante e d’ indefinibile.
Il problema del realismo si presenta al pittore tra il ’19 e il ’26, con la scoperta del paesaggio toscano filtrato dalle reminescenze dei Macchiaioli, della natura morta e degli interni con figure tra Cézanne e Soffici, e si ripropone via via, negli anni, ad esempio in un tema legato alla mimesis e tradizionalmente “concorrenziale” alla fotografia come quello del ritratto, che darà alla pittura di Maccari frutti pregevolissimi: si pensi ai numerosi autoritratti (come l’Autoritratto con profilo di donna o l’Autoritratto con bicchiere, entrambi del ’76), o ai ritratti dei contemporanei Vitaliano Brancati, Libero De Libero, Ottone Rosai, fino a quello – presente in questa mostra – di uno dei suoi amici più cari, che è anche uno dei suoi pochissimi veri consanguinei morali e intellettuali, ovvero il brillante, sottile, tenero, cinico Ennio Flaiano (1965-70).
Si pensi, ancora, al ritratto di Erich Von Stroheim, vero mito, per Maccari, di cui l’artista fa un’icona ricorrente, quasi un simbolo misterioso, quasi un logo concettuale della sua pittura , e che si ripresenta, in questa mostra, inserito nell’opera Due coppie (1965-70).
L’importanza della drammaturgia musicale, del teatro e del cinema per Maccari è giustamente stata messa in luce in un bel saggio del ’93 di Lorenza Trucchi (qui riprodotto in catalogo) che definisce l’artista un “virtuoso della messa in scena”, impegnato a regalarci un mirabolante “spettacolo multimediale in cui alle risorse specifiche del linguaggio artistico si aggiungono quelle dello spettacolo cinematografico”.
Qualcuno ha affermato che la scenografia teatrale rappresenta quasi un’antologia della pittura di Maccari. Infatti, negli splendidi bozzetti per la scenografia del Falstaff di Verdi realizzati nel 1970 per il Maggio Musicale fiorentino (uno dei quali, di sognante e magica eleganza, è presente in questa mostra), come in quelli precedentemente realizzati per Il Naso di Šostakovič (1964), si nota l’esigenza di una continua “frantumazione” dello spazio scenico in senso pittorico. Una delle caratteristiche più evidenti della pittura di Maccari è la ciclicità: il ricorrere, in infinite varianti, di temi e figure, di tipologie fisiche e fisiognomiche, di schemi spaziali e strutturali: ad esempio lo schema di coppia uomo/donna, spesso raddoppiato o moltiplicato (si vedano qui, ad esempio, oltre al già citato Due coppie del ’65-70, Arlecchino del ’64, Omicidio del ’65 o Coppie in campagna del ’68, fino a La cameriera del 1984).
Questa ciclicità consente di affrontare il soggetto scelto secondo più punti di vista, individuandone ogni possibile sfumatura. Ciò che sembra interessare Maccari è la molteplicità delle possibilità di relazione del soggetto stesso, in cui l’artista mira a cogliere le mutazioni più intime e insieme più concrete di un racconto.
A novant’anni, l’artista rivelò che i suoi veri maestri erano stati Gargantua e Pantagruel, e dunque il loro creatore, il narratore francese del ‘500 François Rabelais (1494-1553), sulle tracce del quale Maccari sembra creare una sorta di realismo grottesco, sagace e vitalistico, radicale e terragno, che contempla anche “l’eccezionale predominanza del principio materiale e corporeo” (Bachtin) propria della cultura popolare: così il corpo rappresenta per lui, nella sua topografia fisica e simbolica e nei suoi processi di trasformazione, l’espressione stessa delle mappe biologiche e culturali della vita.
In questo senso la figura più ricorrente nella pittura di Maccari è anche la vera chiave di lettura della sua poetica: la figura femminile, ambigua e seducente, semplice e inesauribilmente vitale, che fronteggia eserciti di soldati e di capitani d’industria, di uomini di potere e di portaborse, di vecchi satiri azzimati, e che rappresenta l’essenza stessa della vita : spesso tragica e sempre, giorno dopo giorno, tragicamente leggera ed equivoca.
Mino Maccari . L’ironia visionaria
... di un "insidioso pennello"
25,00 €
Mino Maccari. L’ironia visionaria di un “insidioso pennello”
Galleria Marchetti, Roma, Turato Edizioni
Realizzata con la collaborazione dell’Archivio Mino Maccari, a 25 anni dalla morte dell’artista, la mostra mette in evidenza, attraverso una trentina di dipinti, l’ironia visionaria del “realismo espressionista” della pittura di Maccari, meno conosciuta rispetto alla sua produzione grafica. Galleria Marchetti, Roma, 10 aprile – 31 maggio 2014.
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