Opere su carta del Novecento italiano
Carte per orientarsi. Il Novecento italiano attraverso la leggerezza della carta
Galleria d’Arte Marchetti, Roma — 14 ottobre / 13 dicembre 2025
A cura di Silvia Pegoraro
Nell’epoca delle grandi installazioni, delle superfici luminose e dei materiali industriali, la Galleria d’Arte Marchetti riporta l’attenzione su un supporto fragile e antico, custode silenzioso di idee, intuizioni e visioni: la carta.
La mostra “Carte per orientarsi. Opere su carta del Novecento italiano”, curata da Silvia Pegoraro, propone un itinerario raffinato e sorprendente attraverso oltre mezzo secolo di ricerca artistica, restituendo alla carta il ruolo di terreno privilegiato del pensiero visivo.
La carta non come mero supporto, ma come luogo dell’intuizione, della libertà, dell’immediatezza. Qui gli artisti del Novecento italiano si incontrano e dialogano, tra gesto e segno, tra luce e memoria. Ogni foglio diventa una mappa per orientarsi nella complessità di un secolo che ha fatto della sperimentazione la propria lingua comune.
Tra intuizione e progetto: il disegno come origine del pensiero
L’itinerario espositivo si apre con Giacomo Balla, maestro del dinamismo e del colore, rappresentato dal Trittico del 1957: tre piccoli fogli di china in cui la linearità futurista si fa quasi musica. Accanto, Luigi Bartolini con L’aragosta (1935) testimonia la vitalità del segno incisorio, raro esemplare di lastra distrutta, in cui la matrice stessa diviene reliquia.

La mostra si muove poi tra le ombre metafisiche di Giorgio de Chirico, con il Vaso con pianta e il Palafreniere e cavallo davanti a un castello, fogli che rivelano l’intimità del maestro lontano dalle piazze assolate e dagli enigmi prospettici, e le delicate deformazioni di Fausto Pirandello, con una serie di nudi femminili e paesaggi boschivi degli anni ’60: pastelli rapidi, intrisi di umanità e malinconia.
Materia, gesto, segno
La carta, nella seconda metà del secolo, diventa terreno di scontro e di invenzione.
Lucio Fontana, con Ambiente spaziale (1951) e Concetto spaziale (1958), la perfora e la incide anche idealmente, portando su di essa la stessa tensione cosmica che caratterizza i suoi tagli e buchi sulla tela.
Tano Festa e Franco Angeli traducono invece la carta in spazio urbano e politico: nei loro lavori la superficie si popola di persiane, di simboli, di sabbia, di memorie collettive.

Achille Perilli e Pino Pinelli ne esplorano la natura più concettuale: il primo nel 1951 e 1953 già anticipa la geometria poetica e la costruzione mentale che caratterizzeranno la sua opera; il secondo, nel 1999, trasforma il foglio in campo sensoriale, superficie di pittura pura.
Anche Renato Mambor, con il suo Senza titolo del 1964, e Gianfranco Notargiacomo, con tre lavori tra il 1985 e il 1995, fanno della carta un laboratorio concettuale: vi tracciano identità, figure, relazioni.

Dal segno plastico alla narrazione
Una parte significativa della mostra è dedicata al segno come scultura.
Ne sono interpreti Emilio Greco e Pericle Fazzini, i cui disegni su carta non appaiono come studi preparatori, ma come opere compiute, dove il volume è evocato da un tratto leggero, vibrante.
A questa sensibilità tridimensionale risponde Alberto Sughi con La ragazza col gatto (1965): una scena intima, psicologica, che trasporta sulla carta la densità pittorica della sua ricerca figurativa.
Ennio Morlotti, con un Paesaggio degli anni ’70-’80, e Renzo Vespignani, con Palazzo in costruzione e Periferia, restituiscono invece l’Italia reale, quella delle periferie, del lavoro, delle ferite urbane, in un registro espressivo che unisce materia e umanità.

Le stagioni della visione
Da Mimmo Rotella ad Ugo Attardi, da Marcello Muccini a Orfeo Tamburi, la mostra compone un mosaico di visioni in cui la carta diventa cronaca e poesia.
In Al tavolo di disegno (1949) di Rotella si scorge la preistoria del décollage, mentre Pantheon di Muccini e le tempere di Tamburi evocano la luce romana e il fascino dell’architettura.
Il percorso trova un contrappunto concettuale in Giulio Paolini, con la litografia Henry Matisse: Portrait d’homme (1971), riflessione meta-artistica sul gesto del copiare e sul valore della citazione, e in Luigi Boille e Giuseppe Chiari, dove il segno si dissolve nel pensiero musicale e nella gestualità pura.

Un atlante di libertà
Chiude idealmente la rassegna Giulio Turcato, con quattro opere che attraversano quasi quarant’anni di ricerca, dai bozzetti teatrali de La pace non viene da sola (1950) al vibrante Segnico del 1981.
Nelle sue carte — come nell’intera mostra — si percepisce una tensione continua tra progetto e improvvisazione, tra forma e pensiero.

Silvia Pegoraro costruisce così un atlante poetico del Novecento italiano, in cui la carta non è solo supporto, ma testimone delle fasi più intime del processo creativo.
Ogni opera esposta — dal tratto rigoroso di de Chirico alla sensualità di Pirandello, dalla materia di Angeli alla luce di Fontana — restituisce la vitalità di un secolo e la sua infinita capacità di reinventarsi.
In conclusione
“Carte per orientarsi” non è soltanto una mostra, ma una dichiarazione di poetica: un invito a leggere la carta come spazio di libertà, come superficie su cui il pensiero prende corpo.
Nell’epoca della smaterializzazione digitale, questi fogli — fragili, concreti, vivi — ci ricordano che l’arte nasce sempre da un gesto minimo, da un segno che cerca la sua direzione nel mondo.